domenica 21 aprile 2013

Gran Torino



Gran Torino




Sopravvissuto alla guerra di Corea, Walt Kowalski ha fatto dell’odio verso i “diversi” la sua ragione di vita e vive ormai isolato dal mondo, pronto a scagliarsi contro chiunque oltrepassi il suo territorio. I suoi unici interessi sono: il suo cane, la birra e una Ford Gran Torino del 1972 che custodisce con una cura maniacale. Dopo aver salvato Thao, un giovane ragazzo della famiglia dei suoi vicini di casa Hmong, dalle mani di un branco di teppisti fannulloni, sarà costretto (ironia della sorte) a fare i conti con la propria coscienza e ad accettare il confronto, le differenze e le tradizioni degli “altri”, simili ad esso più di quanto egli creda. Il 30° lungometraggio di Eastwood regista mette in scena la crisi esistenziale di un uomo e il suo tragico, tormentato rapporto con la propria anima, evidenziando i demoni di quella che è forse la componente americana più intrisa di sangue in assoluto: l’orgoglio. E’ l’orgoglio di essere un americano che spinge Walt Kowalski a rannicchiarsi nel suo habitat, insultando ed inveendo contro qualsiasi individuo che non gli appartenga. La sua, infatti, è una guerra ancora aperta; una ferita che non vuole rimarginarsi neanche quando, in prossimità della vecchiaia, la sua vita non ha ancora un significato e il suo mondo si riduce ai confini di un prato ben curato ma deserto. Illuminato splendidamente dalla fotografia di Tom Stern, si respira l’aria di una felicità soffocata nel film, in bilico tra la speranza di un futuro migliore e la rassegnazione al proprio stile di vita. Ancora una volta nei film del regista americano, è il passato a condizionare la vita di un uomo e le sue azioni. E’, infatti, sotto le mentite spoglie di un thriller, un’amara parabola sull’America di ieri, animata da tribolazioni, dalla cui bandiera gronda ancora del sangue, e su quella di oggi, spiazzata e annichilita dal sangue di ieri, il cui futuro è ancora incerto, costantemente sull’orlo di un insondabile abisso. In questo film dove l’America è composta da tutti (polacchi, italiani, asiatici), si dà l’idea di una nazione dal cuore di tenebra contaminato da più razze, tradizioni, ideologie. Attraverso lo sguardo disincantato del protagonista, Eastwood costruisce, grazie al funzionale apporto di una semplice, asciutta, spoglia eppur efficace struttura stilistico-narrativa, un film ricco di simmetrie e antinomie, tutte rivolte verso la riuscita caratterizzazione di un mondo alla deriva, senza una vera e propria guida morale che ne stabilisca i toni e il carattere, instaurando la consapevolezza di abitare in un universo dominato dall’odio e dal dolore. Sorretto da un tono sarcastico, dissacrante e blasfemo nella sua pacata furia ribelle, opta per certi codici filmici classici e moderni al tempo stesso, frutto di un’esperienza registica qui portata ad un livello di veterana abilità, capace di integrare perfettamente il genere del thriller americano con l’approfondimento psicologico dei personaggi. Eastwood non altera il suo inconfondibile stile; con il suo ritmo disteso, l’affetto per i personaggi, la complessa semplicità, lascia allo spettatore il tempo e lo “spazio” di commuoversi, arrabbiarsi, rifiutare e immaginare; ne cava, così, un dramma di dolente intensità e risalto figurativo, che adotta, sotto la duplice insegna di vita e morte, una stratificata poetica dei contrasti che trova il suo apice nel memorabile finale. Racconto di formazione o tragedia morale? Forse tutti e due.


Danilo Cristaldi

Nessun commento: