sabato 9 giugno 2007

F For Fake

Orson welles: «la mia carriera è cominciata con un falso, l'invasione dei marziani. Avrei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi: sono
finito a Hollywood!».
F For Fake
(Verità e Menzogna)

Analisi del film

Il documentarismo della fine del Novecento è un mosaico di nomi e situazioni che contraddistingue l’era forse più affascinante, senza dubbio quella conclusiva immediatamente all’alba del digitale e dei New Media. Un mosaico di situazioni così decisive che quasi inducono a un nuovo modo di intendere il rapporto che ormai lega il documentario al sistema televisivo, forme e stilemi più o meno consimili nel presentare il film nel film, le notizie dentro le notizie, e nell’organizzare metadiscorsi sul cinema fino a raggiungere le vette dell’iperreale. Le sole, insieme al rock-movie, che abbiano saputo sostituirsi ai generi documentaristici estinti. Gli esempi non si contano: dal Wim Wenders di “Tokyo-Ga” (1985) e “Buena Vista Social Club” (1998), in cui si sincretizza una coincidenza esemplare di verità e finzione, all’Orson Welles di “F for Fake” [F come Falso. Verità e menzogne] (1975) e “Filming Othello” [Girando Otello] (1978), dall’Ingmar Bergman di “Dokument Fanny och Alexander” (1986) al Dusan Makavejev di “W.R.: Misterije Organizma” [W.R. – I misteri dell’organismo] (1971), in grado di fondere mirabilmente {caso unico} film comico, avanguardia, documentario, comunismo e sesso, a partire dai saggi del psicanalista “rivoluzionario” Wilhelm Reich. In tutti le tradizionali problematiche legate alla contrapposizione di realtà e rappresentazione, le dicotomie di documentario e finzione, sono fatte cadere, proprio nel momento della loro apparente radicalizzazione ravvisabile nell’opposizione tra attualità televisiva e kolossal per il grande schermo, dalla coincidenza di realtà e simulazione che istituisce, quanto al nuovo documentario, l’universo iperrealistico della spettacolarità diffusa. Sembrerà curioso trovare il nome di Orson Welles, del cineasta che più di ogni altro è stato definito un mistificatore, un abile mensonniér, un illusionista, un manipolatore della realtà, nell’ambito di un discorso sul documentario. Invece, scorrendo attentamente la sua lunghissima carriera artistica salta agli occhi come tra i molti aspetti poco conosciuti della sua attività dietro la macchina da presa occupano un posto di rilievo alcuni suoi lavori documentari per il cinema e per la televisione, molti dei quali sono ormai usciti dall’oblio in cui erano finiti per troppo tempo. Noi adesso ci soffermeremo su F FOR FAKE (Verità e Menzogna). F for Fake (F come falso, 1973) è un saggio documentario sull’arte della contraffazione, un’arte che non appartiene tanto, o solamente, ai soggetti narrati, come quel geniale falsario di Elmyr de Hory o del (falso) biografo di Howard Hughes, Clifford Irving, quanto al soggetto narrante, cioè lo stesso Orson Welles, il quale manipola con abilità del materiale documentario girato precedentemente sui persoale recita Vérité et mensonges (Verità e menzogna), ricollegandosi in questo modonaggi sopra citati da parte di François Reichenbach, alternandolo a riprese effettuate dallo stesso Welles con la macchina da presa nascosta mentre una splendida (e svestita, per l’epoca) Oja Kodar attraversa a passeggio la città eterna, per la gioia degli occhi dei passanti e per la gioia del regista che ha così la possibilità di immortalare questo popolo di attori (inconsapevoli) nella sua massima espressione recitativa facciale, cogliendo di nuovo una peculiarità tipica di un popolo, in questo caso il nostro. Il titolo migliore di questo film è probabilmente quello francese il qu alla dichiarazione di Welles all’inizio del film, che ci assicura (con tono amichevole) che per un’ora non farà altro che raccontarci la verità, niente altro che la verità, che sarebbe poi la funzione di ogni documentario. Solo che poi, dimentichi di questa dichiarazione (grazie alla sua arte affabulatoria), continuiamo a seguirlo nei diciassette minuti successivi allo scadere dell’ora annunciata, nei quali egli ci mentirà facendoci credere di raccontare ancora il vero e svelandoci l’artifizio solamente nel finale, quando afferma con le parole di Picasso “che l’arte è una menzogna che ci aiuta a comprendere meglio la realtà!”. Orson welles non è solo il regista di questo film ma partecipa anche lui in questo film come falsario, con la sua radiocronaca “La guerra dei mondi” con la quale fece credere che i marziani fossero sbarcati sulla terra. Welles, non aveva previsto quelle che sarebbero state le reazioni del suo pubblico; non aveva nessuna intenzione di fare uno scherzo, come talvolta si crede, e finita la trasmissione si recò in un teatro vicino per prendere parte alle prove serali di uno spettacolo, venendo a conoscenza solo il giorno dopo del putiferio che la sua interpretazione aveva scatenato. A dire il vero, Welles pensava che l'adattamento fosse noioso, e non avrebbe voluto proporlo, se non fosse che fu costretto ad usarlo perché si ritrovava senza altro materiale interessante a disposizione. C’è da dire che il tutto si svolgeva alla fine della “Grande guerra” e che quindi gli individui di quel periodo erano isolati, pronti a credere a tutto o quasi, inoltre quelli erano i tempi “d’oro” della radio.

La dialettica vero/falso è qui risolta brillantemente a favore della “superiorità” dell’imitazione, ovviamente a patto che questa sia perfetta, non dia adito a equivoci di sorta: una concezione che, solo all’apparenza può essere giudicata cinica e mercantile, ma che invece rivendica a chiare lettere un significato per il termine arte che, specie negli ultimi due secoli, si è orientato sempre di più verso il polo dell’originalità e dell’invenzione a tutti i costi, lasciando completamente in disparte quello dell’abilità, della tecnica e della competenza in uno specifico campo di attività, doti queste che oggi vengono riservate, tutt’al più, agli artigiani.
È seguendo (anche) questa traccia che Orson Welles gira nel 1973 F for Fake, il suo film sul falso, la falsificazione, i falsari. Il film di Welles è una sorta di gioco di scatole cinesi che, a sua volta, può essere definito come un’esercitazione sul tema del falso attraverso il cinema. F for Fake è anche e soprattutto un film sul tema dell’identità (oltre che sul concetto di “identico”, trattandosi di un film sulla falsificazione), e questo grazie anche alla presenza di Clifford Irving, il giornalista statunitense divenuto celebre più per lo scandalo della falsa biografia di Howard Hughes che per Fake!, la biografia (vera) di Elmyr de Hory. Welles mette in relazione diretta queste due figure (Irving e de Hory), suggerendo (forse con il loro benestare e persino con il compiacimento di chi si diverte a mescolare le carte) una complicità, uno scambio di favori: Irving avrebbe celebrato in Fake! de Hory che, poi, si sarebbe sdebitato con il suo biografo falsificando la calligrafia di Hughes nei documenti (ritenuti poi autentici da alcuni esperti) che autorizzavano Irving a pubblicare la biografia del magnate. Welles di suo aggiunge l’acuta osservazione che, se Hughes negli ultimi anni di vita aveva fatto sì che circolassero sul proprio conto le voci più disparate (addirittura che si aggirasse all’alba per le vie di Las Vegas con delle scatole di cleenex al posto delle scarpe), allora non c’era niente di male, nel caso in cui la biografia fosse falsa, che Irving “contribuisse” ad amplificare queste voci.
Ma torniamo ai falsi pittorici: “Le linee di Matisse non sono mai sicure come le mie […] Il suo tratto non è fluido, come il mio: mi sono dovuto adeguare per renderlo più simile ad un Matisse”, afferma de Hory mentre, davanti alla macchina da presa di Welles, dipinge quello che ognuno giudicherebbe essere un bellissimo Matisse. Poi, mettendosi in posa, lancia compiaciuto una sfida ai “cosiddetti esperti”, affinché distinguano un suo dipinto da uno autentico. Ciò che sorprende, in questo caso, è che de Hory affermi di essersi “dovuto adeguare” a Matisse, quasi fosse lui il termine di paragone rispetto al quale commisurare la grandezza e la “perfezione” dell’originale. De Hory sposta il confine tra verità e finzione, autenticità e falsificazione, ancora più in là: non è tanto questione di quanto sia difficile fare Matisse, quanto che è difficile farlo così com’è perché colui che copia deve essere molto più abile di chi viene copiato. È proprio quello che vuole dimostrare Welles, tessendo le lodi del falsario che, in un sistema come quello dell’arte nel quale l’unico mezzo per quantificare il genio e l’originalità è, ancora una volta, il denaro, riesce a ritagliarsi un posto d’onore in quanto unico capace di demistificare il sistema stesso.
A questo punto, il divario con i personaggi dei film analizzati poc’anzi è tale da poter essere ormai considerato come un vero e proprio capovolgimento: la falsificazione non è più un’operazione di rivalsa di un perdente nei confronti della società che lo ha rifiutato, né il ripiegamento di un artista fallito su un’attività che gli permetta di “saltare” le fasi per la scalata al successo, né infine il comodo rifugio di un pittore affermato che, in questo modo, può godere da vivo i benefici di chi è morto (magari pagati a prezzo della propria identità negata). Il falsario sembra quasi il punto di riferimento rispetto al quale il mercato dell’arte verifica la validità dei meccanismi che regolano il proprio funzionamento.
Il cinema, arte suprema della finzione/falsificazione, sembra avere in questo caso, la necessità di ripensare le proprie origini, di mettere in dubbio la propria nascita, di reinventarla, come confermato da altri due esempi nella scia di Forgotten Silver come I fratelli Skladanowsky (1996) di Wim Wenders e Il ritorno di Cagliostro (2003) di Ciprì e Maresco. Del resto, una certa dose di ciarlataneria il cinema se l’è portata dietro proprio a causa di quelle sue origini ambigue che vedevano la figura del regista, dell’uomo di cinema, confondersi con quelle dell’illusionista o dell’imbonitore da fiera: Mélies, inventore del linguaggio cinematografico (allo stesso modo in cui i Lumière lo furono del dispositivo) incominciò la sua attività nel mondo dello spettacolo proprio come prestigiatore, illusionista, autore di spettacoli magici (e dei numeri di prestidigitazione sono quelli con cui Welles in persona apre il suo F for Fake, dichiarando con un misto di orgoglio e rammarico: “Sono un ciarlatano”). ”Ciarlataneria” divenuta tanto più evidente negli ultimi due decenni, durante i quali le pratiche postmoderne applicate al cinema (citazione, plagio, falsificazione di forme, linguaggi, codici) hanno contribuito ad elevare allo statuto di opera figure e simboli della cultura popolare. “F come Falso” insomma vuole dimostrare come il confine tra vero e falso, in alcuni casi, sia molto difficile da tracciare.
D’altra parte, a sostegno di questa tesi, potrebbe bastare questo aneddoto riguardante Picasso, che dichiarò falsi alcuni suoi quadri mostratigli da un amico. “Ma se quello ti ho visto dipingerlo io” disse l’amico. “Be’” rispose il pittore spagnolo “io posso dipingere falsi Picasso come chiunque altro”.


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