domenica 21 aprile 2013

The Hurt Locker

The Hurt Locker


E’ la storia di un’unità di disinnescatori di bombe in Afghanistan e in Iraq, la EOD, corpo speciale dell’esercito americano. Tra tensioni, conflitti, momenti di panico, la vita va avanti in un luogo dominato dalla paura e dal dolore. Con un efficace, secco e fluido stile documentaristico, K. Bigelow ci porta così tra gli anfratti della guerra più “silenziosa” degli ultimi anni. Ha lo scopo di descrivere, con puntigliosa meticolosità, ma anche con un’energia narrativa da manuale, il terrificante e amaro microcosmo dei soldati USA in un territorio da salvare e da “evitare”. Ruvido, amaro, serrato, teso come una corda, è un film che fa aspettare e coinvolge sia dal punto di vista emotivo che da quello visivo. Nelle scene di suspense lo spettatore si immedesima istintivamente nel protagonista e ne cattura le incertezze, i problemi, ma anche le gioie e i piaceri adrenalinici; il tutto calato in un’atmosfera di sinistra ambientazione. La figura del sergente capo (co)protagonista della vicenda è inedita nella storia del genere cinematografico a cui appartiene il film; una sorta di reinvenzione della realtà che più vera di così non si potrebbe. Un realismo, quindi, che sfocia nell’iperrealismo. La psicologia dei personaggi è quasi sempre legata alle situazioni, ai luoghi, alle attese interminabili durante le quali ognuno si pone delle domande: “Fino a quando resterò in vita?; Vale la pena essere qui? Perché siamo qui se nessuno ci vuole?”; gli interrogativi vanno di pari passo con l’azione e il ritmo sincopato di un film di guerra. Il titolo (traducibile in “Il pacchetto del dolore”) si riferisce ad un modo di dire del giornalista Mark Boal che indica le bombe da neutralizzare. Nel cinema della californiana Bigelow il movimento è sempre subordinato al pensiero, la tensione alla riflessione; si crea così, attraverso un coraggioso incontro con la realtà, un universo spiazzante e inquietante, tenuto sotto osservazione dall’occhio di un’antropologa. Nell’immaginario cinematografico degli anni 2000 occupa un posto d’onore per la sagacia con cui nasconde la sua anima calcolatrice sotto un velo opaco di improvvisazione, percorrendo una cifra stilistica ferrea e solida nel suo assetato sapore di verità. Due o tre scene mozzafiato affidate ai tempi filmici della Bigelow e un finale amaro, potente e riflessivo al tempo stesso, in cui vengono parafrasate, attraverso le immagini, le parole dell’incipit iniziale: “La guerra è una droga”.


Danilo Cristaldi

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