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venerdì 10 maggio 2013

Ratatouille

Dal 1995 la Pixar Animation Studios ci ha abituati ad uno stile ben differente da quello che aveva caratterizzato la produzione Disney degli anni precedenti; con l’unione delle due case di produzione è venuta a crearsi una fusione perfetta che mira al mantenimento della tenuta classica dei cartoni animati Disney “vecchio stampo” con l’aggiunta dell’effervescenza della Pixar. Dialoghi brillanti, personaggi coloriti, ambientazioni suggestive, musiche trascinanti e una grafica stupefacente. È la ricetta perfetta che la famosa casa di produzione americana (nata inizialmente come una divisione della “ LucasFilm” di George Lucas) utilizza da anni per affascinare i più piccoli, e adesso anche i grandi. 
In Ratatouille (nome di una famosa ricetta di cucina, ovvero l’insalata di verdure), l’unione tra immagine e comicità consolida un’armonia che era già stata affermata con Toy storyA bug’s lifeMonsters & Co.. Dall’esilarante sceneggiatura di Brad Bird, che è anche il regista, scritta insieme a Jan Pinkava, la Pixar ne ha ricavato un memorabile film di animazione che punta più degli altri sulla riflessione; forse proprio per questo piace di più agli adulti che ai bambini. Nel mostrare la figura del vecchio critico culinario Anton Ego, bisogna ammettere che l’etica di questo film va al di là dei semplici messaggi morali dei comuni film di animazione. È una “favola” di magica eleganza, di una leggerezza fluida e svagata, di un umorismo sottile e intelligente, sempre divertente e coinvolgente, con una Parigi disegnata da un’eccellente grafica digitale. Qui, a differenza degli altri cartoni della Disney, la grafica degli umani (fattore che in precedenza aveva un po’ penalizzato i film di animazione Disney-Pixar) è più attendibile, più realistica; anche l’apparato psicologico sembra più definito, sempre attento ad evitare schematismi sentimentalisti, e proprio per questo più sincero ed efficace.
A chi lo considera un semplice film per ragazzi gli si potrebbe citare la scena in cui Ego, critico severissimo e rigido nella sua fermezza di carattere, assaggiando la ratatouille, sfocia in un dolce ricordo infantile in cui la madre lo coccola nella sua cucina: un momento di grande cinema, che suscita anche rimembranze letterarie se si pensa a Proust e alle evocative descrizioni di Alla ricerca del tempo perduto. È, insieme a Wall-E, il film che nella classifica Pixar occupa sicuramente uno dei primi posti. E non è facile.

Danilo Cristaldi

lunedì 22 aprile 2013

Il terzo uomo

Il terzo uomo


Holly Martins (Joseph Cotten), uno scrittore di romanzi western, arriva a Vienna e riceve subito una terribile notizia: l’amico Harry Lime, che lo aveva chiamato a trascorrere un po’ di giorni nella città austriaca, è morto in un incidente stradale. Martins sente puzza di bruciato e pensa che Lime sia stato assassinato, così cerca di scoprire il mistero. Tutto porta alla necessità di conoscere l’identità di un “terzo uomo”, un testimone che potrebbe risolvere l’enigma. Chi è costui? Scritto da Graham Green, è un thriller di taglio espressionistico incredibilmente suggestivo e affascinante, coadiuvato splendidamente dal bianconero di Robert Krasker e dall’accompagnamento musicale su cetra di Anton Karas. Carol Reed è il regista, ma potrebbe essere considerato un film di Welles a tutti gli effetti. Vi è, infatti, tutta la sua concezione cinematografica, con un largo uso dei suoi ingredienti preferiti: inquadrature insolite, atmosfera inquietante, attori dalle facce giuste, narrazione in crescente evoluzione. Nell’assistere ad un racconto dai tipici tratti da film giallo, si assiste al classico esempio di un film di genere che ne trascende i limiti per virtù di stile. Oltre all’evidente qualità figurativa, vi è da sottolineare la compattezza dei suoi elementi, tenuti insieme da una rete di componenti stilistiche non prive di una maestria narrativa che è insieme innovazione e saggezza cinematografica. Nell’accoppiare felicemente spensierato romanticismo e cruda visione della realtà umana, Reed tiene d’occhio la psicologia dei personaggi e non trascura uno degli elementi più importanti del genere: la suspense. Il personaggio di Harry Lime è il riassunto della crudeltà del nostro secolo, composta da menzogne e atrocità assurde, all’interno di una cornice (una Vienna caratterizzata da ombre e penombre) apparentemente linda e cristallina fuori, ma putrida e marcia dentro, dove il tarlo del peccato ha già mostrato la sua orrida presenza. Assistito da un cinico umorismo, è un film magistrale sotto tutti i punti di vista, con una memorabile interpretazione di Welles e una battuta che divenne celebre: “Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.


Danilo Cristaldi

Harry a pezzi

Harry a pezzi


Harry Block è uno scrittore che cerca, seppur in maniera scomposta, di mettere un pò di ordine nella sua vita, soprattutto quella sentimentale, all’insegna del tradimento e dell’insoddisfazione. La sua crisi personale mette a rischio anche la sua creatività artistica. Troverà pace solo nell’arte. Irriverente, sfacciato, dissacrante, blasfemo, ironico, divertentissimo e a tratti anche un pò nostalgico.. E’ uno dei migliori film di Woody Allen, soprattutto per quanto riguarda la struttura narrativa. Le invenzioni abbondano in questo film dal ritmo veloce e leggero, ma non privo di intelligenti riflessioni alleniane su: religione, umana sofferenza, relazioni sentimentali, sesso, morte. Nonostante la struttura rapsodica, a livello tematico è più solido di quel che appare. Può sembrare disconnesso, disarticolato, ma non lo è. Sfilano una dozzina di personaggi, tenuti in gioco da una maestria narrativa d’alta scuola. Molto originale, anche dal punto di vista visivo, con la memorabile invenzione di R. Williams “fuori fuoco” e l’accattivante sequenza di Harry che scende all’inferno e incontra il Diavolo, impersonato dal suo migliore amico. Ricco di battute esilaranti e momenti di vera comicità, è un film diretto, esplicito, sincero. Per i fan di Allen è un vero gioiello. Con Harry a pezzi il regista sceglie una via leggermente diversa rispetto ai suoi film precedenti: più controversa, cinica, spietata, allontanando, lievemente, i risvolti melodrammatici caratteristici delle sue migliori pellicole. E’ anche il film dove si vede il più sregolato Allen di sempre: bevitore, rapitore, inguaribile infedele, egoista. Ma la sua è una dignità personalizzata, una ricerca della verità che trova le sue risposte non nella vita, ma soltanto nell’arte. Tra battute a raffica e situazioni paradossali Allen rinnova il suo stile comico, introducendo, molto spesso, ingredienti surreali o visionari. La commedia ne trae vitalità e brio. Un elogio ai colori e alle luci di Carlo Di Palma, ma soprattutto al folto cast di attori assolutamente strepitosi, con una bravissima J. Davis.



Danilo Cristaldi

domenica 21 aprile 2013

Gran Torino



Gran Torino




Sopravvissuto alla guerra di Corea, Walt Kowalski ha fatto dell’odio verso i “diversi” la sua ragione di vita e vive ormai isolato dal mondo, pronto a scagliarsi contro chiunque oltrepassi il suo territorio. I suoi unici interessi sono: il suo cane, la birra e una Ford Gran Torino del 1972 che custodisce con una cura maniacale. Dopo aver salvato Thao, un giovane ragazzo della famiglia dei suoi vicini di casa Hmong, dalle mani di un branco di teppisti fannulloni, sarà costretto (ironia della sorte) a fare i conti con la propria coscienza e ad accettare il confronto, le differenze e le tradizioni degli “altri”, simili ad esso più di quanto egli creda. Il 30° lungometraggio di Eastwood regista mette in scena la crisi esistenziale di un uomo e il suo tragico, tormentato rapporto con la propria anima, evidenziando i demoni di quella che è forse la componente americana più intrisa di sangue in assoluto: l’orgoglio. E’ l’orgoglio di essere un americano che spinge Walt Kowalski a rannicchiarsi nel suo habitat, insultando ed inveendo contro qualsiasi individuo che non gli appartenga. La sua, infatti, è una guerra ancora aperta; una ferita che non vuole rimarginarsi neanche quando, in prossimità della vecchiaia, la sua vita non ha ancora un significato e il suo mondo si riduce ai confini di un prato ben curato ma deserto. Illuminato splendidamente dalla fotografia di Tom Stern, si respira l’aria di una felicità soffocata nel film, in bilico tra la speranza di un futuro migliore e la rassegnazione al proprio stile di vita. Ancora una volta nei film del regista americano, è il passato a condizionare la vita di un uomo e le sue azioni. E’, infatti, sotto le mentite spoglie di un thriller, un’amara parabola sull’America di ieri, animata da tribolazioni, dalla cui bandiera gronda ancora del sangue, e su quella di oggi, spiazzata e annichilita dal sangue di ieri, il cui futuro è ancora incerto, costantemente sull’orlo di un insondabile abisso. In questo film dove l’America è composta da tutti (polacchi, italiani, asiatici), si dà l’idea di una nazione dal cuore di tenebra contaminato da più razze, tradizioni, ideologie. Attraverso lo sguardo disincantato del protagonista, Eastwood costruisce, grazie al funzionale apporto di una semplice, asciutta, spoglia eppur efficace struttura stilistico-narrativa, un film ricco di simmetrie e antinomie, tutte rivolte verso la riuscita caratterizzazione di un mondo alla deriva, senza una vera e propria guida morale che ne stabilisca i toni e il carattere, instaurando la consapevolezza di abitare in un universo dominato dall’odio e dal dolore. Sorretto da un tono sarcastico, dissacrante e blasfemo nella sua pacata furia ribelle, opta per certi codici filmici classici e moderni al tempo stesso, frutto di un’esperienza registica qui portata ad un livello di veterana abilità, capace di integrare perfettamente il genere del thriller americano con l’approfondimento psicologico dei personaggi. Eastwood non altera il suo inconfondibile stile; con il suo ritmo disteso, l’affetto per i personaggi, la complessa semplicità, lascia allo spettatore il tempo e lo “spazio” di commuoversi, arrabbiarsi, rifiutare e immaginare; ne cava, così, un dramma di dolente intensità e risalto figurativo, che adotta, sotto la duplice insegna di vita e morte, una stratificata poetica dei contrasti che trova il suo apice nel memorabile finale. Racconto di formazione o tragedia morale? Forse tutti e due.


Danilo Cristaldi

The Hurt Locker

The Hurt Locker


E’ la storia di un’unità di disinnescatori di bombe in Afghanistan e in Iraq, la EOD, corpo speciale dell’esercito americano. Tra tensioni, conflitti, momenti di panico, la vita va avanti in un luogo dominato dalla paura e dal dolore. Con un efficace, secco e fluido stile documentaristico, K. Bigelow ci porta così tra gli anfratti della guerra più “silenziosa” degli ultimi anni. Ha lo scopo di descrivere, con puntigliosa meticolosità, ma anche con un’energia narrativa da manuale, il terrificante e amaro microcosmo dei soldati USA in un territorio da salvare e da “evitare”. Ruvido, amaro, serrato, teso come una corda, è un film che fa aspettare e coinvolge sia dal punto di vista emotivo che da quello visivo. Nelle scene di suspense lo spettatore si immedesima istintivamente nel protagonista e ne cattura le incertezze, i problemi, ma anche le gioie e i piaceri adrenalinici; il tutto calato in un’atmosfera di sinistra ambientazione. La figura del sergente capo (co)protagonista della vicenda è inedita nella storia del genere cinematografico a cui appartiene il film; una sorta di reinvenzione della realtà che più vera di così non si potrebbe. Un realismo, quindi, che sfocia nell’iperrealismo. La psicologia dei personaggi è quasi sempre legata alle situazioni, ai luoghi, alle attese interminabili durante le quali ognuno si pone delle domande: “Fino a quando resterò in vita?; Vale la pena essere qui? Perché siamo qui se nessuno ci vuole?”; gli interrogativi vanno di pari passo con l’azione e il ritmo sincopato di un film di guerra. Il titolo (traducibile in “Il pacchetto del dolore”) si riferisce ad un modo di dire del giornalista Mark Boal che indica le bombe da neutralizzare. Nel cinema della californiana Bigelow il movimento è sempre subordinato al pensiero, la tensione alla riflessione; si crea così, attraverso un coraggioso incontro con la realtà, un universo spiazzante e inquietante, tenuto sotto osservazione dall’occhio di un’antropologa. Nell’immaginario cinematografico degli anni 2000 occupa un posto d’onore per la sagacia con cui nasconde la sua anima calcolatrice sotto un velo opaco di improvvisazione, percorrendo una cifra stilistica ferrea e solida nel suo assetato sapore di verità. Due o tre scene mozzafiato affidate ai tempi filmici della Bigelow e un finale amaro, potente e riflessivo al tempo stesso, in cui vengono parafrasate, attraverso le immagini, le parole dell’incipit iniziale: “La guerra è una droga”.


Danilo Cristaldi

1997 - Fuga da New York

1997 - Fuga da New York

L’isola di Manhattan è diventata un carcere di massima sicurezza. Non vi sono guardie al suo interno, ma l’intero territorio è controllato dagli elicotteri della polizia. Nonostante i controlli, un aereo, con a bordo il presidente degli Stati Uniti e alcuni membri del governo, viene dirottato verso un grattacielo. Il presidente riesce a salvarsi ma viene rapito dai carcerati. Non hanno alcuna intenzione di dialogare, di conseguenza l’unico sistema per salvare il presidente è infiltrare, all’interno dell’isola, un reduce di guerra (condannato a una pena da scontare nel carcere). Ha esattamente 24 ore di tempo per farlo, se no morirà. In caso contrario sarà libero. Carpenter attinge dall’estetica dei fumetti; riesce così, attraverso la costruzione di un ingegnoso apparato scenografico, a dirigere un thriller fantascientifico d’azione al di sopra della media per ricchezza di idee, invenzioni visive, tematiche trattate. L’invenzione di una New York in via di “estinzione” è geniale; solo Carpenter poteva modellare così la “grande mela”, iniettandovi, con stravagante spavalderia, quel suo radicale pessimismo che lo rende unico. Il film camuffa abilmente il suo contenuto attraverso l’originale fantasia visiva e sonora che, sotto la direzione del regista, raggiunge un’energia insolitamente inquietante e rara nei film del genere a cui appartiene. A tratti ingolfato dagli stereotipi dell’action movie, ha il suo punto di forza nell’apocalittica sottotraccia; smontando ironicamente l’intero sistema socio-politico americano, riesce ad essere attendibile e incredibilmente moderno, a tratti addirittura profetico (l’attacco terroristico per mezzo di un aereo che si schianta su un grattacielo). Si avvale di una secca energia narrativa, surrogata egregiamente dai notevoli contributi tecnici (fotografia di Dean Cundey; scenografia di Joe Alves). Il fascino notturno delle scene coniuga sguardo visionario e lucida percezione della realtà. Permeato da quell’anomalo fascino degli ’80. 



Danilo Cristaldi

La congiura degli innocenti

La congiura degli innocenti

Il cadavere di un uomo viene sotterrato e dissotterrato quattro volte da un gruppo di persone che ha qualcosa da nascondere. Nella sua calcolata mistura di comico e tragico, è una commedia caratterizzata da un umorismo nero, affidato in gran parte a una serie di avvenimenti paradossali. Una delle rare commedie di Hitchcock, contiene in sé quell'aria tipicamente british, che il regista ha saputo conservare nonostante la trasferta a Hollywood, accompagnata da una dose di sano cinismo. La trama, affollata da personaggi in gran parte stravaganti, è il pretesto per raccontare la “normalità del delitto”, che poi qui non esiste. Quasi tutti i personaggi tendono a nascondere la verità, seppur innocua, all'interno di una cornice elegantemente autunnale, dai colori forti e accesi della fotografia di Robert Burks. Attraverso le peripezie di una sgangherata squadra di falsi colpevoli, assistiamo ad una ballata macabra dal tocco decisamente ironico e leggero, dove la suspense fa da contorno e assume, per la prima volta in Hitchcock, un incarico secondario. Non è, per chi conosce il regista e la sua maestria narrativa  un difetto, ma un metodo alternativo per raccontare, con allegra sfacciataggine, la paura che l’uomo possiede della colpa, anche se quest’ultima non esiste. Un’ottima squadra di attori, tra cui una Shirley Mclaine adorabile nel suo ruolo di bizzarra ragazza di campagna. E’ un film di puro divertimento, assistito dall'angelo custode dell’ironia.


Danilo Cristaldi